L’illecita manipolazione della psiche umana: esiste il reato di “plagio”?
La libertà di autodeterminarsi costituisce indubbiamente uno dei pilastri su cui si fonda il nostro ordinamento democratico.
Per tale motivo la legge punisce espressamente tutte quelle condotte ritenute idonee a limitare la volontà di un soggetto o, addirittura, volte ad annullarla completamente.
Un esempio paradigmatico di tali norme è dato dell’articolo 603 del codice penale che in tema di “plagio” prevede: “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni”.
Tale norma è rimasta in vigore nel nostro ordinamento sin quando, nel 1981, la Corte Costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità ritenendola troppo generica e di difficile applicazione in concreto.
In particolare, a giudizio della Consulta, risultava del tutto impossibile accertare in maniera scientifica lo stato psicologico di “totale soggezione” della vittima, e cioè quella situazione in cui il plagiato non possiede più una volontà propria ma si trova ad obbedire pedissequamente i comandi del soggetto plagiante.
Secondo il ragionamento della Corte, una diversa interpretazione della norma in questione avrebbe dovuto comportare, per assurdo, la sanzione di tutti quei rapporti in cui si viene a creare una fortissima dipendenza psicologica tra due persone, così come può stabilirsi tra il medico e il paziente gravemente malato, tra sacerdote e fedelissimo credente o tra persone follemente innamorate.
Proprio per tali ragioni si comprende il motivo per cui nel repertorio della giurisprudenza italiana si può rinvenire un unico, e discutibile, caso di condanna per il reato di “plagio”.
La sentenza in questione è quella emessa a seguito del famoso, e molto controverso, processo a carico di Aldo Braibanti, un intellettuale di sinistra che venne accusato nei primi anni sessanta di aver soggiogato due ragazzi con le sue idee radicali e anticonformiste, nonché, cosa certamente ritenuta ancor più grave all’epoca, di averli istigati all’omosessualità.
La sentenza Braibanti viene oggi annoverata tra le pagine più buie della giustizia italiana e costituisce l’esempio lampante di come una legge poco chiara, o formulata in maniera troppo generica, possa facilmente generare degli abusi proprio da parte di chi dovrebbe farla rispettare “in nome del popolo italiano”.
Avv. Andrea Ricci
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